sabato 14 dicembre 2013

Doppio gioco. Racconto di una perversione cristiana


Nelle pagine seguenti non si troverà alcun giudizio di valore né sul dogma né sul culto religioso. Ci si limita ad analizzare la condotta della Chiesa come “realtà sociologica di popolo concreto in un mondo concreto”, secondo la terminologia della stessa Conferenza Episcopale Argentina. Di contro, la sua “realtà di mistero teologico” è di esclusiva pertinenza dei credenti e merita il mio massimo rispetto. Neppure si discute sull’istituzione che si definisce santa, bensì sugli uomini che ne facevano parte nel periodo in esame e che si reputano essi stessi peccatori.
Si apre con questa avvertenza il ponderoso volume di Horacio Verbitsky dal titolo Doppio gioco. L’Argentina cattolica e militare (ed. Fandango, 2011). Verbitsky, uno dei migliori giornalisti argentini,
noto in ambito internazionale (tra l’altro per aver testimoniato nei celebri e discussi processi intentati dal giudice Baltasar Garzón), affronta il tema della collusione del clero argentino con la milizia durante la dittatura che ha portato all’uccisione di migliaia di civili (fatti scomparire, senza dichiararli né vivi né morti: desaparecidos), dipanando - nella mole delle testimonianze, dei documenti d’archivio, degli atti giudiziari - la matassa di questa odiosa e in parte ancora inspiegabile collaborazione.

L’avvertenza è fondamentale per l’autore: per mettere in chiaro da subito che non si tratta di un attacco ideologico o di una presa di posizione di principio, ma di una ricostruzione neutrale basata essenzialmente sui fatti (per quanto può essere neutrale un uomo di fronte all’orrore della guerra civile del proprio Paese). Eppure il suo - oltre a centrare perfettamente l’obiettivo del resoconto storico, per la puntualità e la linearità dell’esposizione - finisce per essere comunque un durissimo atto d’accusa non solo alla Chiesa tutta, ma allo stesso cristianesimo. Vediamo perché.

La prassi clericale
Innanzitutto, la collaborazione pratica. Don Emilio Grasselli, segretario del cardinal Caggiano, nel bel mezzo di una repressione sanguinosa - nella quale i militari rapiscono indiscriminatamente i civili, facendo uso e abuso della tortura, compiendo la finale infamia di ucciderli a loro insaputa (gettandoli nell’oceano da un aereo in volo ancora sotto l’effetto del narcotico) e di negare alle famiglie e all’opinione pubblica di averlo fatto - maneggiava quotidianamente le liste segrete dei detenuti, senza intervenire né denunciare nulla (questa in realtà non era una prerogativa di Grasselli: i più alti esponenti del clero argentino erano perfettamente informati su quanto stava accadendo, e nessuno denunciò nulla). Ma lui riuscì a fare di più: consigliava alle madri che accorrevano per chiedergli aiuto di pazientare per non ostacolare il corso della giustizia, di non rivolgersi ad alcun tribunale, di rassegnarsi; rendendo così all’esercito, secondo Verbitsky, un servizio migliore di quello degli stessi militari, che poterono continuare a “lavorare” indisturbati. Inutile dire che, durante la dittatura, ebbe modo di arricchirsi personalmente in maniera strepitosa.
Similmente il cardinal Bergoglio, provinciale dei gesuiti, non solo non protestava di fronte agli abusi dei militari verso sacerdoti dell’ordine, ma almeno in un’occasione si spinse a favorire l’arresto di due loro, ben conoscendone l’innocenza. E ancora il cardinale Pio Laghi, nunzio apostolico, diceva alla stampa di non essere a conoscenza di nulla, nello stesso momento in cui si adoperava per mettere in fuga dal Paese suoi amici (con la connivenza dello Stato maggiore, che fingeva di chiudere entrambi gli occhi su queste faccende; in tal senso, il cardinal Laghi barattava con ciò il proprio silenzio sullo scempio che i militari compivano nell’intera nazione).
Comportamenti di singoli, le cosiddette “mele marce”? Di certo non lo fu l’organizzazione di un vero e proprio campo di concentramento all’interno di una proprietà ecclesiastica (che Verbitsky riferisce in ogni dettaglio nel suo precedente volume L’isola del silenzio, ed. Fandango, 2006), che richiedette ben più che l’iniziativa e la solerzia di qualche “prete deviante”, a cominciare dalle sfere più alte della gerarchia clericale argentina. Come è potuto accadere che proprio coloro che per primi avrebbero dovuto accorgersi dell’incompatibilità radicale tra il cristianesimo e la pratica militare di quegli anni, sprofondassero invece in quest’ultima fino al collo? Ciò che vorrei dire qui è che questo non accadeva per uno sventurato caso, ma in virtù di una ben precisa esigenza, supportata da una ben precisa teoria: ed era una teoria di ispirazione cristiana.

La teoria cristiana
Il cardinal Caggiano, massima autorità ecclesiale argentina, che era solito passare in rassegna le truppe elargendo benedizioni e incitamenti, spiegando quanto giusta (e salvifica) fosse la causa della guerra civile nazionale, si spinse un giorno ad arringare le truppe con una citazione medievale del Vescovo di Verden (1411):
«quando la Chiesa si vede minacciata nella sua stessa esistenza, cessa di essere soggetta ai principi morali. Quando il fine è l’unità, tutti i mezzi sono benedetti: inganno, tradimento, violenza, simonia, prigione e morte. Giacché l’ordine è necessario per il bene della comunità e l’individuo va sacrificato al bene comune».
Non era quindi un caso, bensì la testimonianza del fatto che - nel sentire di Caggiano - la Chiesa non solo era tenuta ad agire politicamente (ed anche violentemente) in un simile momento storico, ma lo era sempre stata. In altre parole: la cristianità era tenuta (cioè obbligata) in quel momento ad avallare ed anzi promuovere i soprusi, le torture, le sparizioni e le uccisioni al fine di un bene maggiore: la preservazione dell’ordine statale. Il cristianesimo lo esigeva: i cristiani erano chiamati a contrastare i loro acerrimi nemici, il comunismo e il caos. O noi o loro. Analogamente a lui, il sacerdote Louis Delarue, in un documento diffuso in tutti i reparti militari, aveva scritto:
«se la legge, nell’interesse di tutti, consente di sopprimere un assassino, perché mai si dovrebbe qualificare come mostruoso il fatto di sottoporre un delinquente, riconosciuto come tale e pertanto passibile di morte, a un interrogatorio duro [sic!] ma il cui unico fine è, grazie alle rivelazioni che farà sui suoi complici e sui suoi capi, proteggere degli innocenti? In circostanze eccezionali, rimedi eccezionali».
Ecco da dove i cappellani militari traevano ispirazione per dire che l’assassinio di detenuti narcotizzati in volo era una prassi cristiana, perché non traumatica. Ecco da dove i militari traevano il proprio codice morale di condotta. E si dicevano tutti cristiani.

La perversione
Ancora non riusciamo a rassegnarci: come è possibile che la religione dell’amore del nemico, fino alla morte di croce, possa rovesciarsi nel suo opposto (lo sterminio dell’avversario disarmato)? Perché, attenzione, di questo si tratta. Non di un rinnegamento del cristianesimo in un momento di difficoltà, ma di una reazione inusitata espressa come l’unica cristianamente adeguata. Per dirla in poche parole (con il proposito di chiarirlo nel seguito) l’errore più grande del clero argentino fu anteporre il dovere alla grazia, la necessità (ovvero: quello si pensava fosse necessario, ancorché sporco) alla speranza; eppure non si trattò di errore, ma di un progetto deliberatamente messo in opera nella convinzione di star agendo “cristianamente”.
Ci viene in aiuto al riguardo l’interpretazione del filosofo francese Maurice Bellet, che ha esposto il meccanismo della perversione cristiana nel suo capolavoro Le Dieu pervers - ma trasversalmente in tutta la sua generosa opera. La perversione cristiana nasce da uno stravolgimento del ruolo e del senso della legge: in particolare nasce dal misconoscimento fondamentale dell’esigenza della legge (che non è quella di proibire, bensì di creare un ordine all'interno del quale la vita umana sia possibile: la “legge di ogni legge”, cui ogni legge deve sottostare, è di essere per il bene dell'uomo - “il sabato è fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato”, dice il Vangelo). Irrigidire la legge facendone un’esigenza per se stessa, a priori, come se essa non fosse un mezzo per l’uomo ma un fine in sé, conduce al rovesciamento per il quale essa non è più serva dell’uomo, ma è l’uomo a divenirne il servo. È in questo punto che fa l’ingresso la figura cristiana del “Dio perverso”, il quale sostituisce alla legge come possibilità di vivere insieme umanamente la necessità dell’obbedienza illimitata e a tutti i costi. Ecco che la legge divina, nata dall’amore di Dio (che aveva inteso dare all’uomo uno strumento per costruire una vita comune degna e fruttuosa), si trasforma in una gabbia e in un’icona idolatrica che è necessario preservare sempre e comunque, anche quando ciò richieda il sacrificio della vita dell’uomo.
Qual è il terreno di questa avvilente semina? Purtroppo, spiega Bellet, è il cristianesimo, quel cristianesimo abituato alla delega della propria comprensione della fede a favore del clero - e, di conseguenza, all’obbedienza acritica (quel cristianesimo, spiega Bellet più dettagliatamente, abituato a coltivare il seguente schema: se Dio ha amato tanto l’uomo da dare il suo stesso Figlio per lui, l’uomo avrà il dovere - l’obbligo di riconoscenza - di ricambiarlo, rinunciando finanche alla propria vita. Infatti, poiché l’amore di Dio è infinito, mentre quello dell’uomo è limitato, lo sforzo di “risarcimento” da parte di quest’ultimo verso il Creatore sarà sempre una fatica di Sisifo, la cui vita resta interamente consacrata a un compito impossibile. Una gabbia. Un inferno. Costruito partendo dall’amore). Un dispositivo mentale particolarmente adatto a formare uomini che sappiano eseguire gli ordini senza farsi troppi problemi di coscienza (quei burocrati del male banale di cui parlava Hannah Arendt). Checché ne dica don Gallo (cfr. l’intervista rilasciata all’Altrapagina a gennaio 2012), il cristianesimo “di destra” esiste ed è diffusissimo: possiamo anche non ritenerli cristiani (loro fanno lo stesso con noi, che ci riteniamo cristiani “di sinistra”), ma resta il fatto che essi si autocomprendono come cristiani: in loro non agisce la malafede, ma il meccanismo del Dio perverso. Essi possono davvero - come l’inquisitore del Nome della rosa - uccidere l’eretico per la salvezza della sua anima. Riterrebbero anzi apostasia un comportamento diverso.
In definitiva, non si tratta di una esecrabile deviazione dalla retta via cristiana, facilmente individuabile e condannabile come errata; si tratta al contrario di una teoria perfettamente integrata in un certo modo di intendere il cristianesimo; non di una cattiva interpretazione del cristianesimo, ma di una visione religiosa attualmente e storicamente molto accreditata, riassumibile in poche parole: Dio (non il “Dio nell’uomo” del Vangelo, ma il Dio dell’astrazione teologica, quello degli obblighi e dei principi) viene prima di ogni altra cosa, anche a costo di schiacciare l’uomo (rovesciamento dell’evangelico “Chi ha dato da mangiare a questi piccoli, lo ha fatto a me”). Qui qualunque cosa diventa perfettamente ammissibile, anche la più grande turpitudine (come quelle che Caggiano riprese dal vescovo di Verden): qualunque crimine diventa accettabile e tollerabile, perché commesso in nome della maggior gloria di Dio (ovvero, nel caso di specie, della salvezza della sua rappresentante terrena: la Chiesa). Val la pena ribadirlo: non si tratta di un semplice (e pernicioso) errore, ma di una forma di cristianesimo molto radicata e perfettamente strutturata nei suoi presupposti teologici e nelle sue ricadute pastorali (almeno allo stato attuale della coscienza cristiana: lo si dica sottolineando che l’auspicio è di un superamento di questa mentalità). Il clero argentino ha dato dimostrazione di dove possa condurre un simile sistema di pensiero, ma quello che qui si vuole osservare è che non è stata prerogativa di quegli uomini, di quel luogo e di quell’epoca: non abbiamo visto all’opera singoli fanatici o farabutti, bensì esponenti di una religiosità che campeggia tutt’oggi ad ogni livello delle gerarchie cristiane del mondo intero.

Conclusione
Verbitsky è uomo di grande onestà e professionista di indiscussa serietà. Quando ha scritto Doppio gioco certamente non intendeva suggerire (e tanto meno argomentare) simili conclusioni. Tuttavia la questione non è eludibile, perché a questo livello - al livello cioè della vita e della morte, della scelta finale tra il Bene e il Male - la prassi e la teoria sono meno che mai separabili. Nel nostro piccolo abbiamo in Italia, ancora oggi, lo stesso problema di coscienza, quando ad esempio monsignor Fisichella afferma che la Lega “quanto ai problemi etici, manifesta una piena condivisione con il pensiero della Chiesa” (tanto da spingere Massimo Cacciari ad osservare che “gli alleati che la Chiesa si sceglie di volta in volta per motivi tattici sono quelli che meno sarebbero adatti dal punto di vista strategico dei principi”). Forse senza rendercene conto siamo di fronte, come dice Bellet, a “due cristianesimi”: un cristianesimo del “dovere verso Dio”, incurante del destino del singolo uomo e un cristianesimo che antepone - senza sopprimere nessuno dei due - l’amore del prossimo all’amore di Dio (quel Dio che, secondo Giovanni, “nessuno ha mai visto”). Può darsi che siamo maturi per prenderne consapevolezza; e fors’anche - Dio ci aiuti - per fare una scelta.

(Calabrò, P., 2012, “Doppio gioco. Racconto di una perversione cristiana”, «Il Margine», aprile 2012, Trento, 36-41.)

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